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Quello espresso del quartetto viennese Phal:Angst è davvero un insolito linguaggio musicale, figlio di fruttuose contaminazioni e di una scrittura solo in apparenza lineare. Nati nel 2006, su label Noise Appeal Records pubblicano, ad oltre quattro anni di distanza da “Phase IV”, le otto tracce di “Whiteout”, quinto atto di una carriera oscura e defilata, percorso caratterizzato dalla continua ricerca di un’identità forte, distintiva, riconoscibile. Analogamente ai suoi predecessori, spazia tra istanze mutuate da generi e sottogeneri non sempre e non necessariamente limitrofi tra loro: è un ponte tibetano sospeso sul nulla, attraversarlo è un azzardo, il punto di partenza non è chiaro, quello di arrivo ancora meno. Il percorso è precario, la via incerta, ad ogni passo le certezze sfumano. Nel mezzo del cammin, va in scena una pièce straniante le cui asperità sono spesso affidate alla imprevedibile instabilità del canto, capace di passare in un istante da placido a demoniaco senza che l’insieme trasudi mai aggressività, ma neppure indulga a pacatezza o riflessività. Come di consueto, lunghe composizioni (dai sette minuti in su) si evolvono in modi inusuali, rinunciando a lievitare, preferendo altresì aggiungere strati su strati di suoni, effetti, sovrapposizioni, contrappunti. Alla base, pulsioni industrial ed elettronica incupita di derivazione dark-ambient, non lontana dalla concezione di Lustmord, non a caso presente nella rilettura di “Unhinged”, uno dei due brani in collaborazione con illustri ospiti; il secondo è “A Tale of Severance”, affidato ad un toccante remix di Jarboe, che ne accresce magistralmente l’austerità. Già nella title-track in apertura, a prevalere è uno spurio post-rock abulico, che per tre quarti del brano arranca sornione privo di sviluppi, salvo deflagrare nel finale grazie al brusco passaggio da sussurro a grida parossistiche, evocando sia i movimenti subdoli dei Mogwai, sia le creazioni astratte degli Ulan Bator. Movenze ingannevoli increspano appena la superficie di “Severance”, cadenza monocorde e frase di chitarra sporcate da un garbato sferragliare metallico e dal fil rouge di una melodia dolente, mentre suggestioni orchestrali guidano “Least Said, Soonest Mended” in un dedalo di ampie armonie, sorrette dal battito algido della drum machine. Come per la successiva “What Rests Mute in Bright Corners”, sembra quasi di tornare ai tempi dei Cure di “Disintegration”, mirabile sfoggio di sentimentalismo decadente avvolto in spirali di svenevole languore, musica sospesa a mezzaria, ferma in attesa. In attesa: non in agguato, nonostante gli sporadici disturbi che si permettono di sporcarne la trama delicata. E se “Unhinged” è l’episodio più tetro, introdotto da una chitarra che inanella figure drone à la Sunn O))) e propulso da un canto sfigurato che ricorda le ossessioni plumbee dei Drown, i dodici minuti di “What a Time to Be Alive” vagano catatonici su un tappeto di synth, sfiorando certe derive post-gotiche dei primi Sisters Of Mercy ed esplodendo nelle urla conclusive: lancinanti sì, eppure lasciate quasi sullo sfondo, inghiottite da scosse che sono solo improvvise, mai intimamente violente. In questo indefinibile regno di ombre ed illusioni, dominano di volta in volta rigurgiti gutturali e spoken word in tedesco, piccole virate prog-metal ed elettronica subdola, tessiture ipnotiche e derive psych, stasi esasperata e divagazioni controllate, mutamenti di scenario ed umori nefasti, in una sfaccettata rappresentazione degna dell’ondivago estro degli Ulver. Bel sogno o incubo spaventoso? Nessun compromesso, il dubbio rimane. (Manuel Maverna)